Sono andato a
recuperare qualche libro di psicologia utilizzato per uno degli esami che ho
dato, e superato, all’ISEF di Firenze (Istituto Superiore di Educazione Fisica)
ed ho provato a metter giù alcune note riguardanti le varie conversazioni che
ho con alcuni podisti di cui seguo la preparazione.
“… corro per vincere…” , “… corro
per dare il meglio di me stesso…”; “… corro per divertirmi….”.
In ognuna di queste frasi, inserite
all’interno di una conversazione relative alla nostra attività sportiva, oltre alle sensazioni che ogni singolo atleta
prova sia prima che durante la propria “sgambata” si rileva anche il grado di
maturità atletica con il quale l’atleta tenderà a misurarsi in gara.
Riporto quanto trovato :
“Ad una prima impressione parrebbe quanto meno paradossale che un
possibile favorito dichiari di non puntare alla vittoria, escludendo, come in
questo caso, ragioni di condizione fisica. Ed è altrettanto improbabile che il
detentore di un oro olimpico si accontenti di credere che ‘l’importante sia
partecipare’.
In
realtà siamo di fronte ad un esempio di riduzione delle aspettative, tipico
espediente cognitivo utilizzato per alleggerire il carico d’ansia che precede
una prestazione.
Intendiamoci,
non viene abbassato il desiderio di vincere – che resta, ovviamente, la
motivazione principale – quanto piuttosto viene ridotta la costrizione a
vincere che costituirebbe una sorta di imperativo categorico in netto conflitto
con il piacere della gara.
Se da una parte la tensione, nella giusta dose, è un
ottimo ingrediente per affrontare l’attività agonistica, dall’altra il suo
‘sovradosaggio’ produce effetti contrari, un po’ come il peperoncino che esalta
i sapori sempre a patto di non esagerare nella quantità.
Non
accettare l’idea di una possibile sconfitta, con la conseguente delusione,
equivale a caricarsi di una zavorra troppo onerosa.
Tutto ciò che impedisce una qualche “via di fuga”,
costringendoci in un cunicolo mentale senza alternative, genera sempre risposte
eccessivamente ansiose. Si pensi a quanti si paralizzano di fronte ad un esame
– magari nonostante la preparazione –
per il timore insopportabile di andare incontro ad un giudizio negativo. La
paura di un fallimento ipotetico provoca il fuggire l’evento (una fuga
concreta) che concede un sollievo temporaneo – non sostenendo l’esame – a cui
segue, però, l’inevitabile coscienza del fallimento, questa volta non presunto,
ma reale.
Viceversa la disponibilità a tollerare l’errore ci
restituisce, assieme alla dimensione umana della fallibilità, anche un maggior
senso di sicurezza ed in fondo di libertà.
Liberi
di poter anche sbagliare.
Dare il
meglio di se stessi è dunque l’atteggiamento più equilibrato per mantenere la
giusta carica agonistica senza incorrere nello stress da prestazione. Significa
immaginare di fare la propria parte senza avere la pretesa onnipotente di
dominare tutti gli eventi.
I meccanismi che si attivano prima di una prestazione
mettono in gioco la propria autostima, vale a dire quella specie di rilevatore
psichico che misura l’indice di gradimento verso se stessi. I suoi estremi
oscillano tra il Sé ideale (come vorremmo essere) e il Sé percepito (come
riteniamo di essere).
Una
bassa autostima implica un grande divario tra le due componenti che si traduce
in sfiducia nei propri mezzi e sottovalutazione delle proprie risorse. Questa
condizione emotiva può innescare una spirale negativa.
Il forte bisogno di conferma determina un innalzamento
delle aspettative che rende inaccettabile l’errore e incrementa la tensione
portandola oltre il livello ottimale, ma la compromissione del rendimento e la
conseguente delusione impoveriscono ulteriormente l’autostima, e così via. Non
bisogna comunque credere che l’alta autostima determini solo effetti positivi.
L’eccesso, in questo caso, induce ad una sopravvalutazione delle proprie
capacità spingendo a conseguire mete oltre misura col rischio, ad esempio, di
sbagliare alcuni allenamenti o peggio il ritmo-gara.
L’allenamento
‘mentale’ prima della competizione deve essere quindi finalizzato alla
modulazione delle emozioni per mantenerle vive, ma in modo moderato evitando
esagerate oscillazioni verso l’alto o verso il basso. Esattamente come
l’impiego delle forze durante la corsa lunga che richiede una distribuzione
‘ragionata’ delle proprie energie.
La padronanza emotiva è il requisito indispensabile del
maratoneta che però – specialmente se è un amatore – oltre ad una giusta dose
di autostima, deve avere una altrettanto giusta dose di autoironia che gli
consenta di inserire tra i pensieri prima della gara l’idea che questa è un
gioco in cui è bello vincere: sensato dare il meglio di sé, ma soprattutto è
sempre importante divertirsi.”
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