“Obiettivo dell’ultramaratoneta è quello di imparare a utilizzare come carburante la minima quantità utile di grassi necessaria a completare la gara senza crisi, ma nello stesso tempo al ritmo più veloce possibile consentito da quella miscela.” - Parte Prima di tre
L’equazione del consumo energetico: quanto consumiamo?
Il primo problema che deve porsi un aspirante
ultramaratoneta riguarda il carburante necessario per arrivare in fondo alla
prova. Se dovesse finire le proprie scorte energetiche (o essere
impossibilitato ad usarle) prima della fine della corsa, sarebbe crisi e forse
ritiro. Occorre dunque fare subito chiarezza su questo importante punto, spesso
purtroppo ignorato anche da chi prepara gare più brevi. Mettiamoci comodi, e
cerchiamo di capirlo bene, perché non è elemento su cui si possa sorvolare,
almeno non nel caso dell’ultramaratona.
Incominciamo col definire quali siano le nostre scorte di
carburante e dove siano localizzate.
Se ci schieriamo alla partenza di una gara tre ore dopo un
buon pasto (quindi con tutti i “serbatoi” correttamente riempiti), secondo i
dati riportati da O’Brien et al.[1] per
un atleta del peso di 70 kg, disponiamo circa di 100 g di zuccheri nel fegato e
di circa 400 g all’interno dei muscoli, per un totale pari a circa 2000 kcal.
Questi zuccheri si trovano sotto forma di glicogeno, che è un polimero del
glucosio (cioè come una collanina ramificata, in cui ogni perla rappresenta una
molecola di zucchero semplice), che rilascia glucosio via via che questo viene
consumato dai muscoli con lo sforzo.
Disponiamo però anche di una scorta di grassi quasi
illimitata. Se supponiamo che l’atleta da 70 kg abbia una massa grassa “da
maratoneta” pari al 12% del peso, disporremo di 8,4 kg di grassi che – se
fossero tutti utilizzabili – potrebbero apportarci la bellezza di 75.600 kcal.
Benché una larga parte di questa dotazione di grasso sia funzionale
all’organismo, si può per approssimazione considerare illimitata la
disponibilità di grassi per uso energetico, almeno se rapportata all’entità
della riserva di zuccheri. Il problema relativo all’uso dei grassi, come
vedremo tra breve, è che possono essere consumati solo ed unicamente insieme
agli zuccheri: mai da soli.
Anche le proteine, in particolari condizioni metaboliche,
possono fornire un contributo non indifferente, come vedremo più avanti.
Il nostro corpo, dunque, dispone di 2000 kcal dagli
zuccheri, e di tutte le calorie che vuole dalle sue scorte di grassi, oltre ad
una piccola frazione dalle proteine. Ma di quante calorie il nostro atleta può
avere bisogno, per esempio, in una 100 km?
Proviamo a conoscere, ed applicare, l’equazione del consumo
energetico della corsa:
Consumo (kcal) = K x
(Peso atleta) x (km percorsi)
dove K rappresenta il cosiddetto “coefficiente di
economicità di corsa”.
Il coefficiente K ha valori che si aggirano intorno
all’unità e, dunque, un calcolo molto approssimativo potrebbe addirittura
toglierlo dall’equazione, semplificando le cose. Se K è uguale a uno, infatti,
le kcal consumate sono pari ai kg di peso per i km percorsi. Semplicissimo: 70
kg per 100 km dà 7000 kcal (kilocalorie).
In realtà K, come vedremo più avanti parlando di “stile di
corsa”, assume valori che possono variare da 0,85 per atleti di alto livello
con corsa particolarmente economica e poco dispendiosa, fino a 1,1-1,15 per
principianti che sprecano un mucchio di energia caracollando, agitando le
braccia, saltellando, “zappando” il terreno, ecc. Se consideriamo l’amatore
medio che si avvicina alle lunghe distanze e (ottimisticamente) lo pensiamo
dotato di una tecnica di corsa accettabile, supponendo che venga da una qualche
esperienza in maratona, possiamo sbagliare di poco calcolando un K pari a 0,9.
Questo significa che il consumo energetico in kcal diventa:
0,9 x 70 x 100 = 6300 kcal.
Il calcolo è approssimativo, ma a noi è largamente
sufficiente per compiere qualche simulazione operativa che ci aiuti a capire le
dinamiche metaboliche dell’ultramaratona.
La domanda che dobbiamo porci ora è dove trovare le 6300
kcal che ci servono a completare la gara, nel modo più semplice ed efficiente
possibile.
I diversi meccanismi per la produzione di energia muscolare
Dalle premesse che abbiamo fin qui visto, risulta chiara
l’impossibilità di completare una 100 km facendo conto sulle sole 2000 kcal di
zuccheri di cui disponiamo. Il nostro organismo dovrà dunque fare uso anche
delle scorte di grassi, di alcune proteine, e di quanto saremo in grado di
fargli assumere (o meglio, assimilare) durante la prova. Scopriremo però che
dalla capacità di utilizzare con maggiore efficienza l’uno o l’altro substrato
può derivare un risultato prestativo completamente diverso, anche a parità di
condizioni iniziali. Andiamo quindi con ordine e cerchiamo di capire meglio
come funziona il nostro organismo sotto sforzo.
Capire a fondo le dinamiche metaboliche del nostro “motore”
richiederà un piccolo ripasso di chimica. Ma non c’è bisogno di spaventarsi:
dove non vi sarà tutto chiaro, cercate di afferrare il concetto di base e
proseguite. Andando avanti nella lettura i concetti si chiariranno sempre di
più.
I nostri muscoli hanno bisogno di energia per contrarsi.
Dalla contrazione deriva uno spostamento (una trazione, una rotazione) di un
segmento osseo collegato al muscolo attraverso un tendine, grazie al quale ci
muoviamo. Le fibre (e fibrille) muscolari sono fatte di filamenti di actina e
miosina, proteine a struttura lineare che hanno la caratteristica di poter
scorrere l’una sull’altra agganciandosi e sganciandosi, così da generare la
contrazione che produce il movimento.
La “benzina” di cui actina e miosina hanno bisogno per
agganciarsi e sganciarsi si chiama ATP (adenosintrifosfato) che è un nucleotide
(la materia di cui sono fatti i nostri cromosomi) specializzato
nell’immagazzinamento e rilascio di energia nella cellula. Nella forma “scarica”
(ADP = adenosindifosfato) c’è un gruppo fosforico in meno rispetto all’ATP
(forma “carica”). In pratica l’energia proveniente dai cibi con cui ci siamo
alimentati viene chimicamente fissata in quel legame fosforico che trasforma
l’ADP in ATP, e rimane a disposizione dei nostri muscoli per il momento in cui
dovrà essere utilizzata.
In realtà, essendo l’ATP una molecola piuttosto grande, non
è conveniente stipare troppa energia sotto quella forma. L’ATP così contiene
una piccola scorta di energia di pronto uso, mentre il resto viene accumulato
nella cellula muscolare sotto forma di glicogeno, un polimero del glucosio
molto simile all’amido. Via via che la cellula consuma energia, dal glicogeno
vengono staccati dei pezzettini di glucosio (come perline di una collana) dalla
cui combustione viene ricavata l’energia per ricaricare l’ADP ad ATP.
L’ATP dunque rappresenta la moneta di scambio richiesta dai
muscoli per funzionare, ma la sua ricarica dipende dalla disponibilità di
glucosio da bruciare (o, come vedremo, di pochi altri combustibili) esistente
all’interno della cellula stessa.
Una precisa sequenza di serbatoi
Ogni volta che incominciamo a muoverci partendo da fermi, i
nostri muscoli si servono di un meccanismo per la ricarica dell’ATP che fa uso
della creatina. Questo aminoacido, nella sua forma legata al fosforo, è in
grado di cedere energia istantaneamente, senza bisogno di ossigeno né di
produzione di acido lattico. Viene perciò chiamato meccanismo
anaerobico-alattacido. Non ci soffermeremo su questa modalità, perché è quella
utilizzata da chi effettua sforzi esplosivi di durata brevissima. In una gara
di corsa di 100 m il 50% circa dell’energia necessaria è prodotto attraverso
questa via, ma già in un 5000 m il suo contributo è vicino allo zero.
Molto più importante è invece il meccanismo di ricarica
legato alla produzione di acido lattico, di cui sarà necessario parlare un po’
più dettagliatamente.
Il glucosio può bruciare per produrre ATP attraverso vie
metaboliche diverse. In presenza di ossigeno in quantità sufficiente, la
combustione del glucosio si completa fino ad acqua e anidride carbonica,
estraendo tutta la possibile energia contenuta nello zucchero di partenza. La
combustione completa può ricaricare nella cellula fino a 38 molecole di ATP. Se
però la combustione del glucosio avviene in assenza di ossigeno, il ciclo
metabolico cosiddetto “ciclo di Krebs” smette di funzionare, così che la cellula è
costretta ad “inventarsi” una via alternativa che possa fornire almeno un
pochino di energia, anche in condizioni anaerobiche. Il glucosio così si
scompone fino all’ultima molecola possibile prima di entrare nel ciclo (l’acido
piruvico), e la trasforma in acido lattico ricavando la miseria di due sole
molecole di ATP (al posto delle 38 consentite dall’altra via).
Non sorprende dunque che in condizioni normali, con ossigeno
sufficiente, la cellula percorra la via completa fino ad acqua e anidride
carbonica. L’ottenimento invece del classico “uovo oggi” (2 ATP) invece della
“gallina domani” (38 ATP) rappresentato dal ciclo completo, diventa un obbligo
nel caso malaugurato in cui l’ossigeno non sia disponibile, e un suo uso
parziale diventa sempre più importante via via che l’ossigeno diminuisce.
Nella nostra cellula muscolare, dunque, in presenza di
ossigeno viene sempre scelta la via di demolizione completa del glucosio (che
avviene in parte nel citoplasma e in parte nel mitocondrio, l’organello
cellulare specializzato nella produzione di energia). Quando però corriamo ad
un ritmo un po’ troppo sostenuto in rapporto al nostro stato di allenamento,
l’ossigeno che trasferiamo ai tessuti diventa in parte insufficiente. In quel
momento, la produzione di acido lattico, che era assente o comunque a livelli
basali, incomincia a crescere dal punto di vista quantitativo, fino a diventare
la fonte prevalente di ricarica per l’ATP se lo sforzo richiesto cresce
ulteriormente.
In gare come i 200 o i 400 m il meccanismo dell’acido
lattico contribuisce a più del 60% delle calorie consumate per muovere i
muscoli, mentre il suo contributo incomincia a scendere al crescere della
distanza e arriva praticamente ad azzerarsi sulla maratona. Perché dunque
parliamo della via dell’acido lattico se il suo utilizzo in una 100 km è
irrisorio? Perché alcuni dei valori a
noi necessari per comprendere le modalità di allenamento più idonee per il
centochilometrista fanno riferimento a velocità di soglia legate all’accumulo
di questo specifico metabolita. Cerchiamo quindi di capire quando e perché
l’acido lattico viene prodotto.
Abbiamo ipotizzato che il nostro atleta stia lavorando a
velocità crescenti (e quindi, supponiamo, anche a ritmo cardiaco crescente).
Fino ad un certo punto l’ossigeno è sufficiente a bruciare tutto il carburante
zuccherino necessario alle cellule muscolari per rifornirsi di ATP. Poi, da un
certo momento in avanti, la fatica si fa così intensa (e le pulsazioni così
alte) che l’ossigeno disponibile non riesce ad essere trasportato con
sufficiente rapidità ai tessuti, e le cellule muscolari si trovano in “debito”.
E’ chiaro che a quel punto il fattore limitante è l’ossigeno: la cellula riduce
quindi l’ossidazione completa dei substrati zuccherini, e incomincia ad
attivare la via dell’acido lattico. Le due vie, infatti, possono in parte
coesistere. Il vantaggio di questa operazione è chiaro: poiché non vi è più
ossigeno sufficiente per produrre ATP con la via più produttiva, si affianca
alla prima una via meno efficiente ma che ha il pregio di non avere alcun
bisogno di ossigeno. Il processo (chiamato glicolisi) che porta da glucosio ad
acido piruvico, e da lì ad acido lattico, si svolge interamente nel citoplasma
della cellula, e non ha bisogno né di ossigeno né dell’intervento dei
mitocondri.
La produzione di acido lattico, tuttavia, non è indifferente
per il muscolo, ma ha un effetto di acidificazione progressiva del tessuto,
fino ad arrivare ad impedire la normale funzionalità della cellula,
costringendo l’atleta a fermarsi. Questo è il motivo principale per il quale un
atleta che corra ad alta velocità possa tenere tale ritmo (più alto della
soglia di inizio dell’accumulo di acido lattico) per tempi molto brevi. Tanto
più brevi quanto più intenso quantitativamente è l’accumulo di questa sostanza.
Un buon mezzofondista, e ancor di più un buon interprete delle gare di velocità
prolungata come 400 e 800, dovrà quindi allenare con grande cura la capacità
del proprio organismo di resistere il più a lungo possibile in queste
condizioni metaboliche, o meglio ancora a ridurre quanto più possibile
l’accumulo di acido lattico attraverso gli adattamenti fisiologici offerti
dall’allenamento.
[1] O’ Brien et al. – Carbohydrate dependance
during marathon running – Medicine and Science in Sports and Exercise, 25, 9
(1993), 1009-1017
Fine parte prima di tre
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