giovedì 19 luglio 2018

MECCANISMI ENERGETICI


Obiettivo dell’ultramaratoneta è quello di imparare a utilizzare come carburante la minima quantità utile di grassi necessaria a completare la gara senza crisi, ma nello stesso tempo al ritmo più veloce possibile consentito da quella miscela.” - Parte Prima di tre

L’equazione del consumo energetico: quanto consumiamo?
Il primo problema che deve porsi un aspirante ultramaratoneta riguarda il carburante necessario per arrivare in fondo alla prova. Se dovesse finire le proprie scorte energetiche (o essere impossibilitato ad usarle) prima della fine della corsa, sarebbe crisi e forse ritiro. Occorre dunque fare subito chiarezza su questo importante punto, spesso purtroppo ignorato anche da chi prepara gare più brevi. Mettiamoci comodi, e cerchiamo di capirlo bene, perché non è elemento su cui si possa sorvolare, almeno non nel caso dell’ultramaratona.
Incominciamo col definire quali siano le nostre scorte di carburante e dove siano localizzate.
Se ci schieriamo alla partenza di una gara tre ore dopo un buon pasto (quindi con tutti i “serbatoi” correttamente riempiti), secondo i dati riportati da O’Brien et al.[1] per un atleta del peso di 70 kg, disponiamo circa di 100 g di zuccheri nel fegato e di circa 400 g all’interno dei muscoli, per un totale pari a circa 2000 kcal. Questi zuccheri si trovano sotto forma di glicogeno, che è un polimero del glucosio (cioè come una collanina ramificata, in cui ogni perla rappresenta una molecola di zucchero semplice), che rilascia glucosio via via che questo viene consumato dai muscoli con lo sforzo.
Disponiamo però anche di una scorta di grassi quasi illimitata. Se supponiamo che l’atleta da 70 kg abbia una massa grassa “da maratoneta” pari al 12% del peso, disporremo di 8,4 kg di grassi che – se fossero tutti utilizzabili – potrebbero apportarci la bellezza di 75.600 kcal. Benché una larga parte di questa dotazione di grasso sia funzionale all’organismo, si può per approssimazione considerare illimitata la disponibilità di grassi per uso energetico, almeno se rapportata all’entità della riserva di zuccheri. Il problema relativo all’uso dei grassi, come vedremo tra breve, è che possono essere consumati solo ed unicamente insieme agli zuccheri: mai da soli.
Anche le proteine, in particolari condizioni metaboliche, possono fornire un contributo non indifferente, come vedremo più avanti.
Il nostro corpo, dunque, dispone di 2000 kcal dagli zuccheri, e di tutte le calorie che vuole dalle sue scorte di grassi, oltre ad una piccola frazione dalle proteine. Ma di quante calorie il nostro atleta può avere bisogno, per esempio, in una 100 km?
Proviamo a conoscere, ed applicare, l’equazione del consumo energetico della corsa:
Consumo (kcal)  = K x (Peso atleta) x (km percorsi)
dove K rappresenta il cosiddetto “coefficiente di economicità di corsa”.
Il coefficiente K ha valori che si aggirano intorno all’unità e, dunque, un calcolo molto approssimativo potrebbe addirittura toglierlo dall’equazione, semplificando le cose. Se K è uguale a uno, infatti, le kcal consumate sono pari ai kg di peso per i km percorsi. Semplicissimo: 70 kg per 100 km dà 7000 kcal (kilocalorie).
In realtà K, come vedremo più avanti parlando di “stile di corsa”, assume valori che possono variare da 0,85 per atleti di alto livello con corsa particolarmente economica e poco dispendiosa, fino a 1,1-1,15 per principianti che sprecano un mucchio di energia caracollando, agitando le braccia, saltellando, “zappando” il terreno, ecc. Se consideriamo l’amatore medio che si avvicina alle lunghe distanze e (ottimisticamente) lo pensiamo dotato di una tecnica di corsa accettabile, supponendo che venga da una qualche esperienza in maratona, possiamo sbagliare di poco calcolando un K pari a 0,9.
Questo significa che il consumo energetico in kcal diventa: 0,9 x 70 x 100 = 6300 kcal.
Il calcolo è approssimativo, ma a noi è largamente sufficiente per compiere qualche simulazione operativa che ci aiuti a capire le dinamiche metaboliche dell’ultramaratona.
La domanda che dobbiamo porci ora è dove trovare le 6300 kcal che ci servono a completare la gara, nel modo più semplice ed efficiente possibile.
I diversi meccanismi per la produzione di energia muscolare
Dalle premesse che abbiamo fin qui visto, risulta chiara l’impossibilità di completare una 100 km facendo conto sulle sole 2000 kcal di zuccheri di cui disponiamo. Il nostro organismo dovrà dunque fare uso anche delle scorte di grassi, di alcune proteine, e di quanto saremo in grado di fargli assumere (o meglio, assimilare) durante la prova. Scopriremo però che dalla capacità di utilizzare con maggiore efficienza l’uno o l’altro substrato può derivare un risultato prestativo completamente diverso, anche a parità di condizioni iniziali. Andiamo quindi con ordine e cerchiamo di capire meglio come funziona il nostro organismo sotto sforzo.
Capire a fondo le dinamiche metaboliche del nostro “motore” richiederà un piccolo ripasso di chimica. Ma non c’è bisogno di spaventarsi: dove non vi sarà tutto chiaro, cercate di afferrare il concetto di base e proseguite. Andando avanti nella lettura i concetti si chiariranno sempre di più.
I nostri muscoli hanno bisogno di energia per contrarsi. Dalla contrazione deriva uno spostamento (una trazione, una rotazione) di un segmento osseo collegato al muscolo attraverso un tendine, grazie al quale ci muoviamo. Le fibre (e fibrille) muscolari sono fatte di filamenti di actina e miosina, proteine a struttura lineare che hanno la caratteristica di poter scorrere l’una sull’altra agganciandosi e sganciandosi, così da generare la contrazione che produce il movimento.
La “benzina” di cui actina e miosina hanno bisogno per agganciarsi e sganciarsi si chiama ATP (adenosintrifosfato) che è un nucleotide (la materia di cui sono fatti i nostri cromosomi) specializzato nell’immagazzinamento e rilascio di energia nella cellula. Nella forma “scarica” (ADP = adenosindifosfato) c’è un gruppo fosforico in meno rispetto all’ATP (forma “carica”). In pratica l’energia proveniente dai cibi con cui ci siamo alimentati viene chimicamente fissata in quel legame fosforico che trasforma l’ADP in ATP, e rimane a disposizione dei nostri muscoli per il momento in cui dovrà essere utilizzata.
In realtà, essendo l’ATP una molecola piuttosto grande, non è conveniente stipare troppa energia sotto quella forma. L’ATP così contiene una piccola scorta di energia di pronto uso, mentre il resto viene accumulato nella cellula muscolare sotto forma di glicogeno, un polimero del glucosio molto simile all’amido. Via via che la cellula consuma energia, dal glicogeno vengono staccati dei pezzettini di glucosio (come perline di una collana) dalla cui combustione viene ricavata l’energia per ricaricare l’ADP ad ATP.
L’ATP dunque rappresenta la moneta di scambio richiesta dai muscoli per funzionare, ma la sua ricarica dipende dalla disponibilità di glucosio da bruciare (o, come vedremo, di pochi altri combustibili) esistente all’interno della cellula stessa.
Una precisa sequenza di serbatoi
Ogni volta che incominciamo a muoverci partendo da fermi, i nostri muscoli si servono di un meccanismo per la ricarica dell’ATP che fa uso della creatina. Questo aminoacido, nella sua forma legata al fosforo, è in grado di cedere energia istantaneamente, senza bisogno di ossigeno né di produzione di acido lattico. Viene perciò chiamato meccanismo anaerobico-alattacido. Non ci soffermeremo su questa modalità, perché è quella utilizzata da chi effettua sforzi esplosivi di durata brevissima. In una gara di corsa di 100 m il 50% circa dell’energia necessaria è prodotto attraverso questa via, ma già in un 5000 m il suo contributo è vicino allo zero.
Molto più importante è invece il meccanismo di ricarica legato alla produzione di acido lattico, di cui sarà necessario parlare un po’ più dettagliatamente.
Il glucosio può bruciare per produrre ATP attraverso vie metaboliche diverse. In presenza di ossigeno in quantità sufficiente, la combustione del glucosio si completa fino ad acqua e anidride carbonica, estraendo tutta la possibile energia contenuta nello zucchero di partenza. La combustione completa può ricaricare nella cellula fino a 38 molecole di ATP. Se però la combustione del glucosio avviene in assenza di ossigeno, il ciclo metabolico cosiddetto “ciclo di Krebs” smette di funzionare, così che la cellula è costretta ad “inventarsi” una via alternativa che possa fornire almeno un pochino di energia, anche in condizioni anaerobiche. Il glucosio così si scompone fino all’ultima molecola possibile prima di entrare nel ciclo (l’acido piruvico), e la trasforma in acido lattico ricavando la miseria di due sole molecole di ATP (al posto delle 38 consentite dall’altra via).
Non sorprende dunque che in condizioni normali, con ossigeno sufficiente, la cellula percorra la via completa fino ad acqua e anidride carbonica. L’ottenimento invece del classico “uovo oggi” (2 ATP) invece della “gallina domani” (38 ATP) rappresentato dal ciclo completo, diventa un obbligo nel caso malaugurato in cui l’ossigeno non sia disponibile, e un suo uso parziale diventa sempre più importante via via che l’ossigeno diminuisce.
Nella nostra cellula muscolare, dunque, in presenza di ossigeno viene sempre scelta la via di demolizione completa del glucosio (che avviene in parte nel citoplasma e in parte nel mitocondrio, l’organello cellulare specializzato nella produzione di energia). Quando però corriamo ad un ritmo un po’ troppo sostenuto in rapporto al nostro stato di allenamento, l’ossigeno che trasferiamo ai tessuti diventa in parte insufficiente. In quel momento, la produzione di acido lattico, che era assente o comunque a livelli basali, incomincia a crescere dal punto di vista quantitativo, fino a diventare la fonte prevalente di ricarica per l’ATP se lo sforzo richiesto cresce ulteriormente.
In gare come i 200 o i 400 m il meccanismo dell’acido lattico contribuisce a più del 60% delle calorie consumate per muovere i muscoli, mentre il suo contributo incomincia a scendere al crescere della distanza e arriva praticamente ad azzerarsi sulla maratona. Perché dunque parliamo della via dell’acido lattico se il suo utilizzo in una 100 km è irrisorio?  Perché alcuni dei valori a noi necessari per comprendere le modalità di allenamento più idonee per il centochilometrista fanno riferimento a velocità di soglia legate all’accumulo di questo specifico metabolita. Cerchiamo quindi di capire quando e perché l’acido lattico viene prodotto.
Abbiamo ipotizzato che il nostro atleta stia lavorando a velocità crescenti (e quindi, supponiamo, anche a ritmo cardiaco crescente). Fino ad un certo punto l’ossigeno è sufficiente a bruciare tutto il carburante zuccherino necessario alle cellule muscolari per rifornirsi di ATP. Poi, da un certo momento in avanti, la fatica si fa così intensa (e le pulsazioni così alte) che l’ossigeno disponibile non riesce ad essere trasportato con sufficiente rapidità ai tessuti, e le cellule muscolari si trovano in “debito”. E’ chiaro che a quel punto il fattore limitante è l’ossigeno: la cellula riduce quindi l’ossidazione completa dei substrati zuccherini, e incomincia ad attivare la via dell’acido lattico. Le due vie, infatti, possono in parte coesistere. Il vantaggio di questa operazione è chiaro: poiché non vi è più ossigeno sufficiente per produrre ATP con la via più produttiva, si affianca alla prima una via meno efficiente ma che ha il pregio di non avere alcun bisogno di ossigeno. Il processo (chiamato glicolisi) che porta da glucosio ad acido piruvico, e da lì ad acido lattico, si svolge interamente nel citoplasma della cellula, e non ha bisogno né di ossigeno né dell’intervento dei mitocondri.
La produzione di acido lattico, tuttavia, non è indifferente per il muscolo, ma ha un effetto di acidificazione progressiva del tessuto, fino ad arrivare ad impedire la normale funzionalità della cellula, costringendo l’atleta a fermarsi. Questo è il motivo principale per il quale un atleta che corra ad alta velocità possa tenere tale ritmo (più alto della soglia di inizio dell’accumulo di acido lattico) per tempi molto brevi. Tanto più brevi quanto più intenso quantitativamente è l’accumulo di questa sostanza. Un buon mezzofondista, e ancor di più un buon interprete delle gare di velocità prolungata come 400 e 800, dovrà quindi allenare con grande cura la capacità del proprio organismo di resistere il più a lungo possibile in queste condizioni metaboliche, o meglio ancora a ridurre quanto più possibile l’accumulo di acido lattico attraverso gli adattamenti fisiologici offerti dall’allenamento.
[1] O’ Brien et al. – Carbohydrate dependance during marathon running – Medicine and Science in Sports and Exercise, 25, 9 (1993), 1009-1017

Fine parte prima di tre

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